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11/05/2011

 

Agricoltura e usi alimentari, dall'Impero Romano ai nostri tempi

Durante il predominio romano, l'agricoltura mantiene un ruolo di primo piano; dl resto, i romani pur considerando con sdegno e sussiego i vinti etruschi, incorporarono gran parte della loro civiltà e tradizione. Non poteva essere altrimenti, visto che gli etruschi avevano da sempre esercitato una superiorità storica e culturale di fronte alla quale i romani apparivano da vincitori i "vinti".
Prova n'è il fatto che divenne di gran moda, nelle famiglie bene romane, mandare i figli a studiare in Etruria.

L'agricoltura continua a svolgere un ruolo di primo piano, a parte la diversificazione del modello romano, per quanto riguarda la tipologia attraverso la quale veniva praticata ( il territorio veniva in parte frammentato per la costituzione di piccoli poderi da attribuire ai veterani, in parte si cominciò a costituire il "latifondo", di cui per lo più era proprietario l'Imperatore).
Ciò comportava di conseguenza, una differenziazione nel tipo di alimentazione fra le classi plebee - pasti frugali, basati sui prodotti coltivati sul proprio fondo - ed una alimentazione molto più ricca e variata con uso, anche eccessivo, di carni per le classi patrizie (i latifondisti).
Ma questa, non è forse una peculiarità tipica della nostra tradizione, condivisa certamente fino ai tempi dei nostri nonni e per alcuni di noi per i nostri padri?

La cucina romana era comunque in buona parte vegetariana; largo uso, come per noi, di olio - grano - vino - cereali e ortaggi.

Interessante fu lo sviluppo di numerose possibilità di fare il pane, fino ad allora fatto essenzialmente con farina di farro. Il pane acquistò talmente importanza che si cominciò a prepararlo di tutti i tipi, fino ad arrivare all'invenzione di focacce e di una specie di pizza fatta con l'uso, oltre che dell'olio, anche dello strutto. Trionfa la fantasia dei fornai con creazioni di pani integrali, conditi, bianchi (l'imperatore Augusto era goloso del pane bigio); la farina di grano impastata con succo d'uva dava origine ad una sorta di pan dolce che era inzuppato in bevande altrettanto dolci.
Anche il pesce era molto in uso tra i romani.

Quindi, come oggi, la cucina dell'antica Roma era varia e soprattutto c'era di tutto: piatti semplici ( plebe ) e piatti di alto livello gastronomico (patrizi).
Cibi tipicamente mediterranei ed altri di origine nordiche e orientali che però non misero radici così profonde, ma costituirono una diversificazione, nella Roma, che, nell'età imperiale, era diventata la metropoli del mondo conosciuto; in cui conferivano tutte le genti con i loro diversi usi e costumi.

Nel millennio che segnò il passaggio dall'età romana alle signorie, il nostro paese conobbe uno dei periodi più bui per carestia e fame, che procurarono vere e proprie stragi, ma nel contempo aguzzarono anche l'ingegno e la fantasia creativa delle popolazioni, che inventarono piatti semplici con le poche cose offerte dalla natura.

Il medio evo va distinto in due periodi.
L'alto medio evo, durante il quale la popolazione era sparsa su un territorio molto vasto e poco colonizzato, era ancora in uso la caccia, così l'uomo trovava buone risorse per la sopravvivenza.
Dall'età Carolingia in poi cominciarono ad essere fissate alcune limitazione, soprattutto alla caccia (si poteva cacciare nella proprietà signorile o del potente ma sempre e solo pagando un tributo); fino ad arrivare alla Legge dei Potentos, che prevedeva pene rigide per il bracconaggio.
Dall'età comunale in poi, man mano che le proprietà divengono privilegio di pochi, i ceti rurali avevano sempre più difficoltà a cibarsi sufficientemente ogni giorno, poiché a loro era totalmente preclusa l'attività "nobile" della caccia.

Con l'età moderna, e precisamente con le signorie rinascimentali, il cibo assume un concetto totalmente diverso da quello dell'alto medioevo e diventa uno status - simbol, cioè non solo alimento ma ostentazione di ricchezza e potere. Pensiamo che il re dei Franchi (Ottone) era considerato esempio di forza e coraggio perché gran mangiatore.

II signore rinascimentale non è "grande" per la quantità di cibo che riesce a mangiare ma perché può permettersi di imbandire tavole ricchissime, può organizzare "banchetti" per dimostrare la propria ricchezza e quindi il proprio potere.
E' soprattutto con i Medici in Toscana che questo concetto viene ampliato al punto che per le nozze di Lorenzo con Clarice Orsini nel 1469 furono imbandite tavole che invadevano le strade fiorentine, affinché anche il popolo potesse essere coinvolto; il banchetto democratico era organizzato su tavole finemente imbandite e decorate.
Inizia il periodo in cui sì da importanza a consuetudini e regole di buone maniere (oggi diciamo bon-ton), che nel '500 si assommeranno nel "galateo di monsignor Della Casa".

Durante l'epoca rinascimentale vere e proprie opere sono scritte sulle pratiche di cucina, il cibo vissuto come momento di cui godere, non solo per un semplice piacere fisico ma anche per il conseguimento della salute fisica e psichica.

La cucina diventa un "ARTE".
"L'opera" di Scappi, del 1570, è il primo e più importante testo sull'argomento.
L'autore persegui un progetto complessivo di confronto tra le varie tradizioni regionali, per arrivare a trovare un equilibrio che portasse a dar vita ad una "Tipicità Culinaria Italiana".
Altri (es. Teofilo Falengo o Messisbugo nel suo "Banchetti" del 1549) erano rimasti legati ad una cultura gastronomica ben definita ai propri ambiti regionali di vita o di lavoro.

Fino al XVII° secolo assistiamo ad un notevole sviluppo di ricettari e trattati di cucina; ma dalla fine del '600 e fino alla metà del 700 la letteratura italiana sulla gastronomia ha una pausa.
Questo è il momento in cui l'Italia come il resto d'Europa, subisce il fascino ed il dominio francese che incide e condiziona anche le scelte alimentari e le preparazione gastronomiche.

Verso la fine del 700, ed in modo particolare dopo la pubblicazione del "Cuoco galante" di Vincenzo Conado (Napoli 1786) a fianco ai sapori francesi riemergono e si rivalutano i prodotti delle proprie campagne, colline, ecc.
Dunque abbiamo un ritorno prepotente alle esaltazioni delle derrate locali, che vanno a costituire piatti tipici di cui sono ricchi i "ricettali municipali" editi nel corso del '800.
Attraverso questi libri che propongono le tipicità gastronomiche delle varie zone e territori si fondono le basi su cui si svilupperà l'identità gastronomica italiana con contorni ben definiti, passando attraverso la codificazione dell'Allusi.

L'Artusi porta in sé già dalla nascita (1821 a Forlinpopoli) i canoni della sua cucina basata sulla cultura toscana e romagnola. Il suo "Scienza in cucina" diventa il punto di riferimento dell'arte culinaria italiana anche se l'autore definisce "piatti italiani" soltanto: il lesso rifatto e i tortellini, a tutti gli altri da connotati regionali.

L'arte culinaria è patrimonio culturale attraverso cui si esprime: gusto, carattere e tipicità italiana.
Durante il ventennio ha inizio un lavoro di completamente attraverso le pubblicazioni di manuali, libri, inventar! atti a promuovere prodotti e ricette tipiche regionali per far conoscere il mangiare all'italiana, anche attraverso manifestazioni, quali mostre sagre ed altro.
Sintesi di questo lavoro è la pubblicazione della "Guida Gastronomica d'Italia" del Touring Club (1931).
Successivamente la guerra riportò la maggioranza della popolazione alla fame.

Durante questo periodo si codificano come piatti tipici alcune tra le preparazioni più povere in ingredienti e condimenti (per forza di cose) ben definiti per zone in base a ciò che la natura riusciva a donare (castagne e patate in montagna - frutti ed erbe in pianura, pesce sulla costa, ecc.).

Ed oggi schiavi di ritmi di vita che condiziona i più ad alimentarsi male e in fretta; ormai abituati all'omologazione dei sapori (tutto ha il sapore di tutto); schiavi di falsi miti quali ad es. che l'olio di semi sia più leggero di quello d'oliva, o che la pasta faccia ingrassare e troppo altro ancora.

 

 


 

 

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